GLORIFICATE DIO NEL VOSTRO CORPO
1Co 6,20)
Don Mario Cascone
             Dopo aver delineato i fondamenti dell’etica sessuale in un contesto assai licenzioso, come era quello di Corinto, l’apostolo Paolo conclude con la meravigliosa esortazione: “Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1 Cor 6,20). Si tratta di un invito a fare di tutta la nostra vita un’offerta di lode al Signore, un’oblazione d’amore che renda gloria al suo nome. Paolo supera così in modo sublime una concezione meramente ritualistica e formale della liturgia, esortando a vivere il culto a Dio come qualcosa che coinvolge tutta la nostra esistenza, e in particolare la nostra vita corporale, mediante la quale noi ci relazioniamo con Dio e con i fratelli. La nostra esistenza storica, i nostri quotidiani rapporti con gli altri, la stessa nostra vita sessuale: tutto deve diventare offerta gradita a Dio per la gloria del suo nome!
            In questa concezione cultuale e liturgica della corporeità S. Paolo supera anche un’idea legalistica e moralistica della sessualità. Tutto il discorso da lui fatto in 1Cor 6,12-20 si fonda su una concezione positiva di sessualità e di corporeità, interpretate nella luce del dono di Dio. Come può un dono del Signore essere negativo? Dio ci ha creato “maschio e femmina” perché ognuno di noi possa vivere la sua identità sessuale nel quadro del suo progetto di amore. Certo, questo non significa che la sessualità si sottragga al peccato e alle tentazioni del mondo, come ampiamente dimostra il discorso fatto da Paolo alla comunità di Corinto. Ma questa realistica constatazione non conduce a vedere con pessimismo la sessualità, quanto piuttosto a riscoprire il meraviglioso progetto di Dio su questa realtà: un progetto d’amore, che il cristiano vive nella consapevolezza di essere stato redento da Cristo. I nostri corpi “sono stati riscattati a caro prezzo dalla schiavitù” del peccato: questa è già una realtà operata dal Salvatore nostro Gesù Cristo. Si tratta ora di vivere questa realtà nella nostra esistenza quotidiana, sottraendola, con la grazia di Dio, alle tentazioni sempre ricorrenti dell’individualismo libertaristico e dell’edonismo consumistico. Si tratta di diventare quello che già siamo, in forza dell’azione redentiva di Cristo. Il dinamismo della vita morale si situa tutto in questa continua tensione tra l’essere e il dover essere, tra l’indicativo (ciò che già siamo) e l’imperativo (ciò che dobbiamo diventare).
            Il nostro essere corporale, che è destinato alla risurrezione finale, rappresenta fin da ora la maniera storica attraverso cui ci relazioniamo con Dio e con i fratelli. La nostra identità sessuale e i gesti che la esprimono sono linguaggio d’amore, che il Signore stesso ha infuso in noi e che ci fa vivere tutta l’esistenza corporea come oblazione pura, gradita a Dio e capace di glorificarlo!
L’offerta “sacrificale” dei nostri corpi a Dio
            L’esortazione a glorificare Dio col e nel nostro corpo viene espressa da Paolo anche nella lettera ai Romani. Vogliamo servirci del testo di Rom 12,1-2 per cercare di approfondire quest’idea e applicarla, senza forzature, alla morale sessuale. Ecco il brano che vogliamo esaminare:
“Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”.
            L’offerta dei nostri “corpi” a Dio è da intendersi ancora una volta come l’oblazione di tutto il nostro essere, che proprio attraverso il corpo vive la capacità di relazionarsi con il Signore, con gli altri uomini e col mondo. S. Paolo sollecita a fare di tutta la propria esistenza quotidiana un “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. È dunque nella vita di ogni giorno, quella che conduciamo tra le strade di questo mondo, che noi siamo chiamati a celebrare la liturgia di lode al Signore, offrendo a Lui tutto ciò che siamo e tutto ciò che facciamo.
Il cristianesimo, pur non rinnegando il valore del tempio e degli altri luoghi sacri, mette in luce l’importanza di adorare Dio prima di tutto nel “tempio” del proprio cuore e del proprio essere personale. Gesù aveva detto alla Samaritana che Dio, prima che in questo o quel luogo sacro, deve essere adorato “in Spirito e verità” (Gv 4,23). E Paolo sottolinea che noi siamo “tempio dello Spirito Santo” (1 Cor 6,19), dimora di Dio, nella quale dobbiamo celebrare continuamente la sua Presenza d’amore.
Naturalmente questo non va inteso in senso intimistico e individualistico. Al contrario, proprio la sottolineatura della corporeità come dimora santa in cui Dio si rende presente, fa comprendere come questa liturgia di lode il cristiano deve celebrarla nella relazione con gli altri e nel suo impegno sociale.
Mentre i pagani offrivano alla divinità i corpi di animali, cioè di esseri privi di ragione, i cristiani offrono se stessi, quali esseri pensanti, razionali, dotati di coscienza e capaci di amare! Questo è il “sacrificio spirituale” di cui parla l’apostolo in questo testo: uno spirituale che, come si vede, non si oppone a corporale, ma lo include. La concezione di persona che noi abbiamo non è quella dualistica, che separa lo spirito dal corpo, ma quella unitaria, che considera l’uomo nell’unità inscindibile di tutto il suo essere corporeo-spirituale.
“Non conformatevi alla mentalità di questo secolo”
Come possono i cristiani fare di se stessi un’offerta gradita a Dio? In che maniera sono in grado concretamente di glorificare il Signore nel loro corpo? San Paolo risponde a queste domande attraverso due indicazioni preziose:
§         Non conformarsi alla mentalità di questo mondo
§         Trasformare la nostra mente per discernere la volontà di Dio
 
Si tratta anzitutto di sottrarsi alle continue insidie poste da questo “mondo” a noi che ci sforziamo di vivere santamente. Non ci troviamo ancora nella piena e definitiva condizione del Regno di Dio, dove le tentazioni e il peccato scompariranno per sempre. Viviamo invece in una dimensione di precarietà e di debolezza. L’esistenza del cristiano, per quanto sia stata già liberata sostanzialmente dal peccato e dalla morte a causa della Pasqua di Cristo, resta sempre esposta alla minaccia del “principe di questo mondo”, almeno fino a che non si compirà definitivamente l’opera della salvezza, quando Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza” (1 Cor 15,24). Allora sarà annientata per sempre la morte e il nostro corpo corruttibile si vestirà di immortalità (1 Cor 15,54).
Nella concezione di Paolo non c’è alcuna demonizzazione di questo mondo, né un invito a fuggire da esso. C’è piuttosto l’esortazione ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento di distanza critica: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo”. L’apostolo ci sollecita ad assumere un comportamento di  radicale anticonformismo di fronte ai dinamismi perversi presenti nella storia ed operanti anche dentro di noi. Siamo chiamati ad andare controcorrente, per non adeguarci passivamente alle logiche di un mondo che ha voltato le spalle a Dio e propone comportamenti antitetici a quelli desiderati dal Signore per le sue creature. In questo senso dobbiamo sempre ricordare che siamo “nel” mondo, ma non “del” mondo (Gv 17,16) e che la lotta continua per piacere a Dio si concretizza in un impegno ascetico quotidiano, nella logica indicataci dallo stesso Paolo: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14).
“Trasformatevi rinnovando la vostra mente”
Qui si situa il secondo suggerimento dell’apostolo: “Trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. L’impegno a distanziarsi criticamente dalle logiche di questo mondo e ad assumere comportamenti profetici che vadano controcorrente si concretizza di fatto nello sforzo di cambiare mentalità e di agire secondo il volere di Dio.
Che cosa vuol dire questo? In termini molto semplici si può dire che l’Apostolo ci chiede di cambiare non il mondo, ma noi stessi. O forse sarebbe meglio dire che ci chiede di cambiare il mondo attraverso il cambiamento di noi stessi! Questa metamorfosi personale riguarda tutto il nostro essere, a cominciare dal rinnovamento della nostra “mente” (in greco: nus), ossia della nostra facoltà di giudizio, mediante cui noi siamo capaci di valutare attentamente ogni cosa per poi decidere ciò che è buono e gradito a Dio.
Questa trasformazione radicale della nostra mentalità e delle nostre scelte comportamentali avviene sotto la costante guida dello Spirito Santo, a cui dobbiamo essere docili, se vogliamo essere conformati a Cristo e camminare in una vita nuova. Lo Spirito Santo ci aiuta a discernere la volontà di Dio e a deciderci per il bene che Egli ci propone. Egli cioè non solo ci fa capire interiormente quello che Dio desidera per il nostro bene, ma ci dona anche la grazia per metterlo in pratica. Non si tratta quindi semplicemente di uno sforzo volontaristico del cristiano, ma di un impegno faticoso, costantemente sostenuto dalla grazia dello Spirito Santo.
Castità e  temperanza
            In questa luce possiamo considerare la virtù della castità come impegno a vivere la sessualità nel “tempio” del nostro corpo, in cui abita lo Spirito Santo, “nel” quale rendiamo gloria e lode al Padre e al Figlio. È questa la suggestiva prospettiva liturgica in cui si colloca la concezione paolina, particolarmente espressa nella Prima Lettera ai Corinti: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi” 1 Cor 3, 16-17). E ancora: “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor 6,19).
La castità non è da intendersi perciò primariamente come una rinuncia, ma come la scelta positiva di vivere la sessualità secondo il progetto di amore di Dio, per il quale il nostro corpo e tutto il suo linguaggio devono diventare progressivamente capaci di dare lode al Signore.
Certamente però la virtù della castità comporta anche delle scelte ben precise, che a loro volta conducono a fare delle rinunce. In questo senso la castità è stata vista tradizionalmente come parte integrante della virtù cardinale della temperanza. Il temperante è colui che sa regolare i piaceri sensibili attraverso la guida della ragione. Egli non reprime i piaceri, ma li accetta in modo che non possano nuocere al bene globale della sua persona. Il temperante è perciò l’uomo moderato, capace di controllare i suoi impulsi istintivi e di autoregolarsi nel mangiare, nel bere, nel divertirsi, nel giocare… L’astinenza volontaria da certi cibi e il digiuno, la sobrietà nel bere, la moderazione nel gioco e nel divertimento sono decisioni che fortificano la volontà ed aiutano a trovare un valido equilibrio interiore. La persona veramente libera non è quella che pensa di essere al di sopra di ogni tentazione, ma quella che, conoscendo la sua fragilità, sa porre in atto rinunce volontarie, interpretate come una sorta di “ginnastica” dello spirito che abilita a resistere al peccato.
La tradizione spirituale cristiana ha visto la virtù della temperanza come una maniera per conformarsi a Cristo, e in particolare al mistero della sua Pasqua. Come il Signore Gesù accettò di soffrire e morire in croce per risorgere a vita nuova e salvare l’umanità, così il cristiano pone in atto la mortificazione volontaria per conseguire gradualmente un’esistenza “pasquale”, che si avvia alla risurrezione finale, nella quale egli vivrà con un corpo spiritualizzato, reso conforme dalla potenza dello Spirito Santo al corpo glorificato di Gesù Risorto.
In questa luce S. Paolo scrive: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). E poi più avanti aggiunge: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Tutto questo l’Apostolo lo scrive nel contesto della lettera ai Galati, che è un vero e proprio inno alla libertà del cristiano. Pensiamo, per esempio al solenne inizio del cap.5, in cui Paolo scrive: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1).
Comprendiamo così che la temperanza, la “crocifissione nella carne” di tutto ciò che può allontanarci dal conseguire la santità, non è da intendersi come una sorta di castigo, che il cristiano si autoinfligge in una concezione quasi “masochistica” dell’esistenza, ma  piuttosto come la progressiva acquisizione  della libertà “pasquale”, che ci rende capaci di superare le nostre tendenze egoistiche e di amare in modo autenticamente oblativo, ad imitazione di Gesù crocifisso e risorto, che ha dato se stesso per tutti noi.
Quest’acquisizione di libertà il cristiano non la concepisce alla maniera degli stoici, i quali esaltavano l’uomo temperante, ritenendo spregevole qualsiasi turbamento sensibile. Il cristiano, da questo punto di vista, non si pronuncia contro il piacere, considerandolo anzi come un dono di Dio, a condizione che esso non diventi lo scopo prevalente della vita, ma la logica conseguenza delle proprie scelte ragionevoli e rispettose della dignità della persona. In questo senso si ritiene che un uomo pecchi contro la temperanza sia quando conduce un’esistenza interamente assorbita dalla ricerca dei piaceri sensibili, sia quando porta avanti una vita incolore, non toccata da passionalità alcuna. Nel primo caso egli mostra di essere intemperante e di somigliare ad un bimbo tutto proteso istintivamente verso ciò che gli piace; nel secondo caso manifesta una chiara insensibilità, che rifiuta il valore positivo degli appetiti sensibili e pretende di vivere stoicamente al di là di essi: anche questa è intemperanza.
Possiamo trovare una sintesi di questi concetti in queste parole del teologo T. Goffi: “Il cristiano vive secondo la propria personalità carnale, la quale appare avviata a diventare pneumatizzata attraverso la partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Ciò significa che il cristiano per vocazione diventa temperante in modo tutto proprio. Accetta la fragranza del benessere umano, ma sa che tutto deve avviarsi verso uno stadio trascendente secondo lo spirito risorto”.
Castità e carità
             Applicando i valori della temperanza alla vita sessuale si giunge a determinare i contenuti concreti della virtù della castità. Per capire in che cosa consiste l’esercizio di questa virtù, si deve partire dalla premessa che la sessualità riguarda l’intera nostra persona e che le attrazioni sessuali toccano sia la sfera esteriore che quella interiore del nostro essere.
La pulsione sessuale, che Freud chiama libido, è molto forte in ciascuno di noi e viene esercitata attraverso il tatto, l’udito, lo sguardo, ma anche mediante la fantasia, la parola, l’intelligenza. Quando la passione istintiva prevale sulla ragione, la persona finisce con l’abbruttirsi in un comportamento fatuo, sciocco, che nel peggiore dei casi diventa svilimento della propria dignità e attentato a quella dell’interlocutore. Freud stesso ammette che la libido deve conoscere una qualche forma di repressione, senza la quale la persona si autodistruggerebbe. Nella sua visione materialistica però egli pensa a questa repressione solo nei termini di un recupero di energie psichiche da canalizzare positivamente in altri campi dell’esistenza umana.
Il casto temperante, così come lo intende la tradizione morale cristiana, è colui che lotta con se stesso per vivere la sessualità sempre e solo come donazione d’amore: una donazione che viene vissuta a partire da un sereno possesso di sé e da una sana capacità di accogliere l’altro nella ricchezza del suo essere. Quelle dell’immaturo, dell’orgoglioso autosufficiente, dell’egoista incapace di accogliere il dono dell’altro sono tutte versioni contrarie alla castità. Il casto temperante si sforza, con l’aiuto del Signore, di creare un graduale ordine interiore nelle proprie passioni, fino a vivere la sessualità in maniera autenticamente gioiosa, nell’ottica dell’amore caritativo.
C’è infatti una feconda relazione tra carità e castità, che si realizza nell’unità della persona, colta nella ricchezza armonica del suo essere. La castità trova la sua motivazione più nobile non nella repressione, ma nella donazione. Essa è esercizio che abilita alla donazione caritativa del proprio essere e all’accoglienza amorosa dell’essere dell’altro. La virtù della castità consiste quindi nel sottrarre il soggetto umano alla tentazione sempre ricorrente di non vedere nel corpo, quello proprio e quello dell’altro, la bellezza e la preziosità della persona, ma anzi di staccarlo dalla persona per farne un mero oggetto di godimento. La castità aiuta il “soggetto” a non diventare “oggetto” e a non “cosificare” l’essere della persona amata. In questo senso essa è carità in grande, perché rende idonei a fare di se stessi e degli altri un dono d’amore. E la carità più vera, lo sappiamo, non consiste tanto nel “donare”, quanto piuttosto nel “donarsi”.
Questo rapporto tra castità e carità è talmente vero, che si può tradurre, nella fecondità intrinseca all’atto sessuale, nella meravigliosa possibilità di trasmettere la vita ad un altro essere umano, il quale viene ad essere contemporaneamente frutto della donazione caritativa dei coniugi e preziosissimo dono per loro stessi!
 “Attentati” alla sessualità
             Su questa base possiamo considerare anche le principale minacce che oggi incombono sulla sessualità umana, deturpandone il volto e svilendone il significato. La nostra epoca, che si vanta di aver raggiunto una grande liberazione in campo sessuale, rischia di essere probabilmente una delle più anti-sessuali della storia. La pretesa liberalizzazione dei costumi in questo campo si traduce infatti spesso in un grave impoverimento della sessualità, dando adito anche a forme sicuramente devianti e fuorvianti, quali la pornografia, la prostituzione, la pedofilia, il turismo a scopo sessuale, insomma tutte le varie forme di mercificazione del sesso che oggi sono assai diffuse e vengono più o meno apertamente tollerate in nome di un’errata concezione della libertà umana.
            Cosa c’è al fondo di queste come di altre devianze sessuali? Quali sono le cause di questa grave mortificazione della sessualità? La risposta a queste domande in fondo è una sola: si è consumata oggi una separazione tra persona e sessualità, per la quale l’attività sessuale dell’uomo viene sempre più considerata come semplice atto fisiologico, che non coinvolge l’intera realtà della persona. Si tratta, in pratica, di una palese negazione del valore della castità, la quale tende proprio a difendere l’unitotalità della persona in questo campo così delicato.
            Questa separazione tra persona e sessualità, che dà adito ad una concezione consumistica del sesso, si esplicita chiaramente in altre due forme di separazione: quella tra sessualità e procreazione e quella tra sessualità e amore.
            È sotto gli occhi di tutti il fatto che l’atto sessuale viene sempre più considerato come qualcosa che non ha a che fare con la procreazione. Lo sbocco procreativo, che è connaturato al rapporto sessuale, viene evitato col ricorso a varie forme di contraccezione e talora anche con l’aborto. Il figlio è visto quasi come una minaccia, che incombe sulla coppia, costringendola a prendere tutte le precauzioni per non incorrere in questo…incidente di percorso. D’altra parte si va diffondendo anche l’idea che, qualora per vari motivi la coppia soffra di sterilità, tutte le maniere per ottenere un figlio sono lecite, ivi comprese quelle forme artificiali, come la fecondazione in vitro o la clonazione, che di fatto pongono la “produzione” del figlio come qualcosa di separato dall’atto sessuale dei coniugi o di coloro che questo figlio richiedono. Nell’uno e nell’altro caso si consuma perciò una separazione tra sessualità e procreazione, che poggia sulla pretesa dell’uomo di vivere queste realtà a prescindere dalla loro verità naturale, sulla base di scelte  che non di rado sono utilitaristiche ed egoistiche.
            Non si vuole mettere in discussione il fatto che spetti alla sapienza dell’uomo collaborare responsabilmente con Dio nella decisione di mettere al mondo un figlio. La scelta di procreare deve sempre restare un atto di grave responsabilità dell’uomo, che va compiuto sulla base di un serio discernimento delle potenzialità educative dei coniugi e delle loro condizioni generali di vita. Rimane perciò sempre valido il principio morale secondo cui la coppia può, per serie ragioni, decidere di non mettere al mondo altri figli. Ma nell’attuare una tale decisione la coppia non può snaturare la verità dell’atto sessuale, deprivandolo della sua potenzialità procreativa; né può snaturare la verità della procreazione, sostituendo la logica della “produzione” a quella della “donazione” reciproca, quale avviene nel rapporto sessuale. L’attuazione di una valida scelta di procreazione responsabile passa sempre attraverso la decisione di vivere la relazione sessuale nella sua verità totale, senza “piegarla” a tutti i costi allo scopo procreativo o senza privarla con ogni mezzo di esso. In pratica questa decisione consiste nell’avvalersi sapientemente dei ritmi naturali di fecondità, che sono insiti nel ciclo mestruale della donna, in maniera tale che l’atto sessuale venga vissuto sempre nella sua naturale verità ovvero ci si astenga da esso nei giorni fecondi, qualora la coppia per valide ragioni abbia deciso di non poter avere altri figli.
            Lo snaturamento più grave della sessualità, logicamente collegabile a quello che abbiamo appena esaminato, è quello che porta alla separazione tra sessualità e amore. Anche questa è una realtà sotto gli occhi di tutti: sono in molti oggi a sostenere che non c’è necessario collegamento tra atto sessuale e amore e che si può “fare sesso” anche senza un coinvolgimento sentimentale delle persone. Talora anche da un incontro occasionale o da un rapporto non impegnativo può scaturire, con relativa facilità, la scelta di avere rapporti sessuali completi, che altro significato non hanno, se non quello di garantire una reciproca soddisfazione sensoriale.
 Anche nei casi in cui si dichiara di vivere la relazione sessuale come atto di amore, permangono gravi fraintendimenti sulla realtà dell’amore, che spesso viene ridotto al suo livello fisico-genitale, ossia ad una serie di attrazioni, impulsi, reazioni spontanee o, nel migliore dei casi, al suo livello affettivo, fatto di sensibilità, erotismo,  di un volersi bene di stampo molto sentimentalistico. Difficilmente l’amore giunge, specie nell’età adolescenziale, al livello dell’io cosciente, che consiste anzitutto nella serena conoscenza e accettazione di se stessi, oltre che nell’aver raggiunto un sereno senso di autopossesso, che possa garantire l’effettiva donazione di sé alla persona amata;  ma consiste anche nella capacità di conoscere l’altro e di volere il suo bene, integrando tutti i rapporti con lui nel quadro di un progetto maturo di donazione reciproca.
 Dio è Amore!
             Questi “attentati” alla sessualità, oggi largamente presenti nella nostra cultura, possiamo intenderli anche come una triste conseguenza del rifiuto di Dio o dell’indifferenza nei suoi confronti. La separazione tra sessualità e procreazione non è forse una negazione dell’intervento che Dio Creatore ha nella trasmissione della vita umana? E la separazione tra sessualità e amore non può forse essere letta come un disconoscimento dell’essenza di Dio, che è appunto l’amore, e che desidera manifestarsi nella donazione reciproca dell’uomo e della donna, fatti a sua immagine?
            Il Signore ci chiama a prendere atto di queste tristi realtà, che incombono sulla nostra attuale situazione culturale. Ci chiede di farlo però con animo aperto alla speranza, ossia senza farci pervadere da quel cupo pessimismo, che è l’attività tipica del “grande accusatore” e che  rischia di immiserire la nostra concezione cristiana in sterili atteggiamenti moralistici e scandalistici. Siamo chiamati a dare una testimonianza fascinosa del nostro modo di intendere la sessualità umana, nella consapevolezza che la forza di questa testimonianza, unitamente a quella delle argomentazioni, può rendere un valido servizio all’uomo del nostro tempo.
            La nostra interpretazione della realtà sessuale parte dal riconoscere Dio come la fonte dell’amore, che dona all’uomo una struttura corporea identificabile sessualmente, attraverso cui gli uomini possono vivere nell’amore, realizzando così la loro immagine e somiglianza col Creatore e cooperando con Lui nel trasmettere la vita ad altre creature. In questa visione personalistica, che trova nell’amore la sua essenza più profonda, si collocano dunque le relazioni sessuali tra gli esseri umani. Esse sono relazioni che coinvolgono la persona in tutta la ricchezza del suo essere e che, se vissute in modo autenticamente umano, la fanno crescere nella capacità di amare. Le relazioni sessuali non vissute in questa logica personalistica, e quindi sottratte alla virtù della castità, rischiano invece di ferire profondamente l’uomo e di mortificarne la capacità di slancio oblativo, rinchiudendolo in  un gretto egoismo.
            Il Signore ci chiama a glorificarlo con tutto il nostro essere e in tutto il nostro agire. La sessualità è una dimensione feconda di questa glorificazione di Dio, perché, se è vissuta secondo il suo progetto, riproduce la stessa vita intima del Dio uno e trino, fatta di relazioni interpersonali d’amore, da cui sgorga un’incessante attività creativa e ri-creativa!

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